In un’isolata Valle di Blenio di inizio Novecento, la levatrice Caterina Capra è chiamata al capezzale di don Antonio, parroco di Corzoneso, che per un male sconosciuto ha perso l’uso della parola.
Abituata a trattare i corpi sofferenti delle donne, quelle «malorose» che aiuta a partorire o qualche volta a «liberarsi», nella quiete della stanza del malato Caterina tenta di scacciare l’imbarazzo raccontando a voce alta quel che si chiede preoccupata la gente. E adesso chi li battezzerà i neonati? Chi leverà alle madri l’impurità del parto? È vero che procreare in un paese senza prevosto porta male?
Di fronte al prete inerte e muto, col passare dei giorni Caterina si fa coraggio e, cosciente dell’eccezionalità della situazione, comincia a incalzarlo con pensieri e domande che la tormentano. Come è possibile che alla messa si parli sempre e solo di peccato e si taccia il resto? La vede, don Antonio, la miseria nera, la paura di restare incinte, la vergogna del sangue tra le gambe? La voce schietta e vigorosa della levatrice sale e si gonfia pagina dopo pagina, occupando tutto il silenzio della stanza e accogliendo in sé le voci e le disgrazie delle molte donne che ha incontrato negli anni. È forse per questo dolore antico che il monologo di Caterina prende a tratti il carattere di un corale j’accuse, una protesta non priva – per noi che crediamo di vivere in un altro mondo – di una sorprendente attualità.